Riabitare le aree interne e ripopolare le “terre perdute” è stato il mantra della più grande occasione mancata degli ultimi anni: tra un isolamento e il successivo molti studiosi hanno postulato come necessario e inevitabile il tornare alla campagna, alla montagna, alle periferie geografiche e non solo per restituire un futuro all’Italia e garantirle quello sviluppo sostenibile sotto il profilo ambientale, economico e sociale che crisi climatica e pandemia stavano minando.
A un anno di distanza dalle ultime prime pagine dedicate al Covid, mentre di transizione ecologica si parla sempre meno, ammesso che questa abbia mai avuto un reale significato e una reale percorribilità, che cosa rimane dei “nuovi montanari”, dei “restanti” e dei “ritornanti”, dei “ragazzi che riprendono la terra dei nonni”?
Poco. Esperienze locali, a macchia di leopardo, spesso deboli e lasciate all’iniziativa di singoli individui e di sporadiche amministrazioni. Una mappa piena di vuoti, dove i servizi continuano a mancare e calano anzi anno dopo anno nonostante la retorica, e dove produrre un reddito è sempre più difficile e demotivante. Anche parlare di turismo nelle aree interne, a lungo proposto come freno al loro spopolamento, sta in molti casi mostrando la sua incapacità di distribuire equamente ricchezza, concentrandola secondo le scelte di algoritmi eterodiretti e di capitali basati altrove, con effetti collaterali spesso pesanti e ancora una volta escludenti.
La narrazione è fin troppo velocemente cambiata. Servono nuove analisi e nuovi modelli di sviluppo, di tutela del territorio, di cura di chi lo abita.
È necessario ridare voce a chi vive le aree interne.
Emiliano Negrini
Direttore creativo del microfestival “Riscopriamo le nostre terre perdute”